Janine-Parole e Musica

Dedicato a Janine
Come ogni anno le celebrazioni per la giornata della memoria finiscono. Le biblioteche svuotano gli scaffali, i teatri rimettono in cartellone le commedie, altre tragedie da ricordare premono, altre indignazioni ci aspettano, altri reality, che di reale hanno poco o niente. Possiamo comunque provare, come ci consiglia Liliana Segre, a tenere accesa una candela di memoria, per non dimenticare una delle più grandi tragedie della storia moderna. Un numero enorme di milioni di persone umiliate e uccise senza nessuna colpa, anzi con un'unica colpa. La colpa di essere nate. Le pochissime Persone (i pochi numeri) che hanno vissuto tutto questo e possono ancora testimoniarlo, sono sempre meno e presto non ce ne saranno più. Le loro parole resteranno e spetta a tutti noi ricordarle e condividerle, affinché non si perdano nel vento come il fumo dei camini. Il racconto ripropone fedelmente i brani più significativi della testimonianza che Liliana Segre ha regalato nel 2001 ai cittadini di Bellusco, riproposti dal punto di vista di un'adolescente dei giorni nostri che, progressivamente, acquisisce la consapevolezza di un tempo che sembra lontano, ma che comunque è stato.
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Per la colpa di essere nata (testo di Alfio Nicosia- testimonianza di Liliana Segre)

«Che palle!!!  Ancora con questa storia del teatro.

Stamattina, poi, ci hanno organizzato l’incontro in classe con un’attrice premiata addirittura dal presidente della repubblica. Sai cosa me ne frega a me; inventore dello smartphone, chiunque tu sia, ti ringrazio. 

Oddio, eccola che arriva, ha gli anni di noè, cosa continua a rompere co ‘ste recite!

Guarda un po’, bello questo rossetto fucsia, si intona anche col mio smalto, quasi quasi me lo faccio regalare da Marco. Non è che mi farà un po’ troppo troia? Già i commenti si sprecano per una minigonna, figuriamoci.»

 

- “Ero una bambina ebrea di otto anni, quando furono introdotte le leggi razziali. Ero ebrea per nascita, ma la mia famiglia non praticava la religione. In quel’epoca gli ebrei italiani erano 35000, ne furono deportati circa un quarto. …oggi dei pochi reduci siamo vivi in novanta e ben pochi di questi novanta hanno la forza di essere qui a testimoniare. …chi ascolta un testimone diventa suo malgrado un testimone e se revisionisti e negazionisti hanno il coraggio, con noi vivi, di negare quello che è stata la shoah, figuriamoci quando noi saremo tutti morti, se non ci saranno le nuove generazioni a ricordare.”

 

«Tum-TaTum-TaTum. Incredibile questo pezzo, peccato poter tenere solo un’auricolare, perdo tutta la stereofonia, ma se non ascolto almeno qualche frase qua e la con l’altro orecchio poi cosa scrivo sul compito in classe? Che palle però. Speriamo almeno che la prof. non mi sgami.»

 

- “La mia infanzia è finita nel 1938. Da un giorno all’altro le mie amiche non mi invitavano più, non potevo più nemmeno frequentare la scuola. …da noi veniva continuamente la polizia a controllare i documenti. …ricordo che un giorno ci fissarono la manopola della radio sull’unica stazione italiana sigillandola. …nell’ottobre del 1942 lasciammo la città per trasferirci in un paesino della brianza, più sicuro dove, però, non potevo più comunque andare a scuola. Lì ascoltavo la radio dei nostri vicini che avevano la possibilità di cambiare le stazioni. …cominciò una caccia all’uomo che era una cosa terribile.  …andavano casa per casa con l’indirizzo, avevano delle liste e cercavano gli ebrei, arrestando anche i neonati e i vecchi, …per la colpa di essere nati”

 

«Ma che immaginazione che hanno questi autori moderni, altro che Manzoni o Pirandello con quelle storie inverosimili e pallose che ci propina la prof. Certo che questa qui però sembra davvero brava, racconta le cose come se le avesse vissute per davvero.»

 

“Prima che tutto precipitasse mio papà procurò dei documenti falsi per entrambi e tentammo la fuga. …una persona onesta non può nemmeno pensare di avere dei documenti falsi,  …beh, io e mio papà avevamo dei documenti falsi. Dopo una notte sulle montagne coi contrabbandieri, i gendarmi svizzeri ci ripresero e ci rimandarono indietro. Io entrai da sola nel carcere di Varese e, dopo un mese ci portarono a San Vittore dove restammo 40 giorni.  …mio papà veniva spesso portato via dalla gestapo per essere interrogato e torturato e io lo aspettavo per ore. Quando tornava sempre più provato io non ero più sua figlia, ero sua sorella, ero sua …..Madre.”

 

In queste ultime parole il raccontoaveva assunto un tono misto di dolcezza, malinconia, rimpianto e dolore, che provocava un brivido lungo la schiena, a cui era impossibile sottrarsi.

 

«Ma cosa sta dicendo? Quegli occhi così profondi; ha il naso leggermente rosso, ma nemmeno un accenno di lacrime, se stesse recitando, una lacrimuccia ci sarebbe stata bene, invece... E poi, il tono con cui ha pronunciato la parola Madre. Mi sono venuti i brividi. Mi sa che spengo il telefono e provo ad ascoltarla.»

 

“Dopo 40 giorni di carcere cominciò questo viaggio sui carri bestiame verso ignota destinazione, verso il nulla.  Ricordo tre momenti distinti, la prima parte del viaggio in cui tutti piangevano anche gli uomini grandi e grossi, e quel pianto fu spaventoso. Nella seconda parte gli uomini più religiosi si riunirono al centro del vagone e lodarono Dio salmodiando, poi arrivò la fase del silenzio; quel silenzio solenne ed essenziale in cui non c’era più niente da dire. All’arrivo ad auschwitz birkenau al silenzio si sostituì il rumore assordante dei nostri aguzzini, le urla, i cani feroci  e tutto ciò che per anni era stato progettato per annientarci, surreale e incredibile. Poi venne la divisione degli uomini dalle donne. Avevo 13 anni. Non dimenticherò mai quel momento in cui lasciai la mano del mio papà, …sulla spianata di auschwitz birkenau:  non l’avrei più rivisto. …ci fecero spogliare completamente e ci raparono a zero, anche i peli del pube e delle ascelle, poi ci tatuarono un numero sul braccio;  …beh, quel numero da quel momento ha sostituito la nostra identità e in questo gli assassini sono riusciti perché noi, sopravvissuti di auschwitz, prima di qualsiasi altra cosa siamo quel numero. Io lo porto con grande onore perché è una vergogna per chi l’ha fatto.

Uomini che hanno potuto concepire di togliere l’identità ad altri uomini colpevoli solo di essere nati,  e sostituire questa identità marchiandoli con un tatuaggio che resterà per tutta la vita: "75190".

Ho chiesto ai miei figli, quando morirò, di inciderlo sulla mia lapide prima del mio nome.”

 

La voce sottile ma determinata che prima disturbava adesso era diventata un pugno nello stomaco e suscitava  emozioni e riflessioni contrastanti, di incredulità e impotenza.

 

«Per la miseria, un tatuaggio sul braccio con un numero, non una farfallina, ma un numero che diventa il tuo nome, la tua identità, anzi che ti toglie l’identità, i tuoi legami, la tua storia, che ti fa diventare una voce in una  lista. Non ci capisco più niente, fatico a credere che sia tutto vero, eppure… lo sembra sempre di più»

 

“Le compagne della baracca delle francesi ci raccontavano che al crematorio bruciavano le persone. Bruciano le persone????  Noi non capivamo. Pensavamo che scherzassero, poi ci dissero dell’odore dolciastro di carne bruciata e ci fecero vedere la neve grigia di cenere, cinque centimetri di cenere sulla neve fresca e allora cominciammo a capire.”

 

«Ma allora è davvero solo una recita, questa l’ho già sentita in quel film di Benigni: che ridere quando il tedesco legge tutte le istruzioni per i prigionieri in tedesco e il papà traduce tutto come se fosse un gigantesco gioco dell’oca pensato apposta come regalo per il compleanno del bambino. Una presa per il culo dietro l’altra, mi ha spezzato quando l’ho visto. E anche quando il bambino con le lacrime agli occhi dice al papà:

- “Non voglio più giocare a questo gioco, loro dicono che qui con le persone ci fanno i bottoni e il sapone!”

- “I bottoni e il sapone con le persone?”risponde il papà “Ma sarebbe il colmo dei colmi. Comunque, se non vuoi giocare non c’è nessun problema, ora si va via! Peccato, c’era in premio un carrarmato vero per chi resisteva fino all’ultimo, ma se non vuoi giocare si torna a casa.”

E il bambino si asciuga le lacrime e rimane lì a continuare il gioco. Seee, figuriamoci se davvero bruciavano le persone, il papà avrebbe portato via di corsa il bambino, altro che giocare.»

 

Dopo i primi giorni di disperazione scegliemmo la vita a dispetto di tutto, dell’orrore che ci circondava, della fame, del freddo; a tutti i costi e in tutti i modi,  e diventammo giorno dopo giorno fredde, dure, priogioniere dei nostri aguzzini e di noi stesse.  Eravamo ridotte a scheletri e I volti delle nostre compagne erano i nostri specchi. Ci portavano a lavorare in una fabbrica di munizioni, fuori dal campo, a tre chilometri di distanza. A piedi, in mezzo alla neve con indosso solo la nostra leggerissima divisa da carcerati. Sulla porta del campo c’era l’orchestrina delle prigioniere violiniste, obbligata a suonare motivetti allegri, sia che si andasse a lavorare, sia che si andasse a morte. Suonavano musiche allegre, ma le loro facce erano tristi, piangevano.”

 

«Figuriamoci: se i tedeschi avevano bisogno di manodopera gratis era tutto nel loro interesse dar da mangiare alle persone che lavoravano e non farle ammalare. Io se ho una fabbrica e dei prigionieri che mi lavorano gratis li faccio portare in fabbrica, al massimo, nel cassone del camion, mica gli faccio fare tre chilometri a piedi in mezzo alla neve, che mi arrivano al lavoro più morti che vivi. E poi se i tedeschi erano così crudeli cosa c’entrano i violini e la musica?»

 

“I binari entravano direttamente nel piazzale del campo e i carri bestiame arrivavano quasi giornalmente, anche se solo una minima parte del carico avrebbe visto il giorno successivo. Periodicamente poi c’erano le selezioni. Scheletri di uomini e donne tutti nudi, e noi ragazze, senza vestiti, in fila indiana, costrette a passare in mezzo a queste file di uomini che potevano decidere con un sì o un no tra la vita e il gas. …eravamo pallide come cadaveri e ci davamo i pizzicotti sulle guance per prendere un po’ di colorito. …io passai ed ero felicissima di essere ancora viva. Avevo vinto, ero viva, viva, tutto il resto non contava, poi dietro di me la mia compagna di mesi di lavoro in fabbrica; alla macchina utensile si era tagliata due dita, aveva cercato di nasconderle coprendo la mano  con uno straccio, … ma era nuda. Gli aguzzini se ne accorsero subito e con un cenno del capo la mandarono direttamente al gas. Lei era dietro di me, ma io non mi sono voltata. Non riuscivo più a sopportare un altro distacco. Sono stata vigliacca e non mi sono voltata. …ecco, Io vi invito a ricordare per una attimo Janine Levy 22 anni, francese, occhi azzurri, voce dolce, capelli biondi appena ricresciuti, ricciolini, 22 anni, mandata al gas, colpevole di essere nata. Io sono stata vigliacca e ancora oggi me ne vergogno. Io non mi sono voltata. Io ero viva e non mi sono voltata.”

 

«Cavoli, ancora questo brivido e la sua voce… sembra quasi di essere lì, di vederla Janine, questa biondina che cerca di nascondere la mano senza due dita. E poi che vergogna passare nude in mezzo a tutti questi uomini in divisa. Mi ricordo che quando abbiamo visto quella mostra fotografica mi aveva impressionato proprio questo particolare. Questi continuano a dirti che non mangiavano, che erano degli scheletri, che li bruciavano nel camino, ma la cosa che a me colpisce di più è proprio vedere tutte queste persone nude, coi loro compagni nudi, donne e uomini, che li vedono, e con i tedeschi, vestiti e con lo sguardo cattivo, che li osservano, magari ridacchiano tra di loro. Io non ci riuscirei mai, cercherei di coprirmi con qualsiasi cosa.»

 

Quando tra i tedeschi cominciò a spargersi la notizia dell’avanzata delle armate russe e della possibile fine della guerra, preludio della loro definitiva sconfitta, l’attività al campo diventò improvvisamente frenetica. Non si potevano lasciare tracce, i forni, migliaia di cadaveri nelle fosse, documenti e liste. Non si potevano lasciare sopravvivere scheletri che erano, essi stessi, una testimonianza vivente degli orrori consumati in quegli anni. Vennero organizzate esecuzioni di massa, ma né i forni né le fosse comuni avrebbero potuto smaltire in tempo i resti di migliaia di persone. Ben presto ai comandanti arrivò l’ordine di evacuare i campi e spostare i prigionieri verso nord, facendo terra bruciata dietro di loro. Il 25 gennaio 1945 viene ricordato come il giorno della liberazione del campo di sterminio di auschwitz birkenau, l’inizio della liberazione dal nazismo, ma al loro arrivo i russi trovarono solo un campo fantasma. Gli ufficiali e i soldati se n’erano andati portando con loro il grosso dei prigionieri, che era stato costretto a marce forzate di giorni e giorni su strade rosse di sangue. Chilometri di scie ininterrotte di cadaveri e sangue. Chiunque non riuscisse a tenere il passo, restando indietro, veniva semplicemente eliminato con un colpo di pistola alla testa e abbandonato sul posto. Per i reduci dal campo principale, smistati nei campi più piccoli e più facilmente mimetizzabili, avrebbero dovuto passare altri due-tre mesi prima dell’abbandono da parte dei tedeschi e della loro fuga.

 

“Nei piccoli campi di prigionia, al nord, i giovani del posto ci guardavano con curiosità increduli del nostro aspetto terrificante. …i campi piccoli non avevano le triple file di reticolati e, attraverso le recinzioni, vedevamo i prati e le colline, e quei ragazzi che venivano a lanciarci, attraverso le alte reti, dei pezzi di pane, croste, bucce di patate. …tenete duro, ci dicevano, la guerra sta per finire, voi dovete resistere. …quel giorno, uno degli ultimi di quei lunghi mesi di prigionia, l’ufficiale si stava togliendo i pantaloni della divisa per indossare gli abiti civili e lasciare quel posto. Ormai la guerra era persa e ognuno cercava di scappare e salvarsi in qualsiasi modo. Io ero nella stanza e lui davanti a me senza pantaloni. Non si occupava di me, per lui ero trasparente.  …aveva appoggiato la pistola sul tavolo e io avrei potuto prenderla. …volevo prenderla, avrei potuto prenderla e sparargli, …beh non l’ho fatto. In quel momento ho pensato che se gli avessi sparato sarei diventata come lui. Io non ero come lui e non presi quella pistola.”

 

«Maledette lacrime, perché non riesco a smettere di piangere come una scema? Quella signora ha vissuto tutto questo, ormai ne sono certa, lo vedo dal suo sguardo, dai suoi modi, dalla sua dignità, e non le scende neppure una lacrima. Sono sicura che dentro piange ogni volta che racconta la sua storia. Ha finito il racconto drammatico con queste parole:

 

“Io spero che ad ogni incontro due delle persone che mi hanno ascoltato diventino candele della memoria. Quando racconto queste cose mi chiedono sempre se sono riuscita a perdonare. Beh, io non lo so. E’ difficile. Io per me potrei anche perdonare, ma non posso perdonare per tutte le persone che sono morte laggiù.

Sei milioni di morti è un numero, ma equivale a uomo morto per  sei milioni di volte.

Non sembra, ma c’è differenza. 

Quando sono tornata è stata dura, la gente crede di capire, ma non si può capire.

Io ho taciuto la mia storia per 45 anni, ma sono stata anche  fortunata, ho incontrato un uomo che mi ha capito e amata. Con lui e per lui ho voluto avere una famiglia il più possibile normale.

Con lui abbiamo avuto tre meravigliosi figli e da qualche anno siamo nonni di due nipoti.

Loro sono la risposta più bella alla soluzione finale”

 

«Grazie signora Liliana, ho capito che non sei un’attrice e nemmeno un numero, per me sei una persona. Mi hai regalato un’amica, Janine, che porterò sempre con me, e io ti regalerò la fiammella di una candela che cercherò di tenere accesa per il resto della mia vita, alla quale farò accendere altre dieci, cento, mille candele. Perché nessuno sia più, mai più, …colpevole di essere nato. »

 

I fatti narrati in corsivo sono realmente accaduti e sono liberamente tratti dalla testimonianza di Liliana Segre, sopravvissuta alla deportazione ad auschwitz.